perchè cadono i quadri ?

MA PERCHÉ CADONO I QUADRI?

Dialogo del film “La leggenda del pianista sull’oceano”, tratto dal monologo teatrale “Novecento” di Alessandro Baricco.

MAX: Nonno, non te lo sei mai chiesto perché cadono i quadri?

VENDITORE: No, veramente.

MAX: A me m’ha sempre colpito tutta questa faccenda dei quadri.

VENDITORE: Ma che cazzo c’entra il quadro!

MAX: C’entra! Perché a Novecento quella famosa notte andò come va per i quadri: stanno su per anni, e poi senza che accada nulla, ma nulla dico, FRAN, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, però loro a un certo punto FRAN, cadono lo stesso. Nel più assoluto silenzio con tutto immobile intorno, non una mosca che vola e loro FRAN! Non c’è una ragione, perché proprio in quell’istante? Non si sa. FRAN! Cos’è che succede ad un chiodo per farlo decidere che proprio non ne può più? C’ha un’anima anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, il chiodo? Erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere da anni, poi hanno deciso un data, un ora, un minuto, un istante preciso? O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato! “Guarda, io mollo tutto fra 7 anni”. “Per me va bene”. “Allora intesi, per il 13 maggio”. “Ok”. “A mezzogiorno”. “Facciamo a mezzogiorno e tre quarti”. “D’accordo, allora buonanotte”. Sette anni dopo, il 13 maggio, a mezzogiorno e tre quarti… FRAN! È impossibile da capire, è una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, sennò esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e scopri che non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi “Io devo andarmene da qui”. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando una sera in mezzo all’oceano Novecento alzò lo sguardo dal piatto, mi guardò negli occhi e…

esiste l'inferno ?

L’INFERNO POTREBBE ESISTERE ANCHE SE NON CI HAI CREDUTO!

Premetto che, ahimè, non sono credente, ma come ogni essere pensante, a volte mi sono interrogato sull’esistenza o meno di Dio e dell’Aldilà. Mi piace analizzare e ragionare, per cui non ho mai rigettato a priori alcuna ipotesi, anche la più apparentemente improbabile.

A destare la mia attenzione recentemente è stata questa frase pubblicata da un mio amico di Facebook, quasi a monito dopo l’approvazione al Senato della legge sul testamento biologico: “L’INFERNO POTREBBE ESISTERE ANCHE SE NON CI HAI CREDUTO”.

Mi appassionano i problemi di logica e per questo ho subito ritenuto interessante analizzare la frase dal punto di vista dell’opportunità, come se fosse un problema tipico della “teoria dei giochi”.

Da buon scacchista, so bene che non bisogna accantonare mai nessuna ipotesi. Pertanto, la prima cosa che ho pensato è che l’ipotesi, sebbene io non sia credente, potrebbe essere vera. La seconda ipotesi, altrettanto vera, è quella contraria, cioè che “L’INFERNO POTREBBE NON ESISTERE ANCHE SE CI HAI CREDUTO”. Tuttavia, siccome per precauzione va sempre considerata l’eventualità peggiore, mi sono soffermato a ragionare sul fatto che l’inferno esista e sia un luogo certamente poco ospitale e non gradito per nessuno. Anche per me che non ci credo.

Quindi, procedendo sempre con opportunità logica, onde trovare la strada giusta per andare in Paradiso o quantomeno evitare l’Inferno, mi sono balzate in mente tante domande a cui ho provato invano di dare risposta.

Quali sono i criteri per andare in Paradiso? Esiste la possibilità di andarci senza crederci? Chi decide? – Dio! – Quale Dio? – Dio è uno solo! – Ma se Dio è uno solo, perché le professioni religiose sono così diverse tra loro e spesso pure in conflitto? E chi Dio non avuto mai la possibilità di conoscerlo per come lo professiamo noi, perché nato in luoghi sperduti o in tempi lontani, andrebbe all’inferno? – Certamente no, altrimenti sarebbe un Dio ingiusto e crudele e questo va escluso. Se quindi la professione religiosa non conta, il ragionamento porta a pensare che sia sufficiente essere buoni e agire secondo una certa etica per andare in Paradiso. Ma cosa intendiamo per etico? L’etica è un concetto universale?  A cominciare da Socrate, passando per Kant, tantissimi filosofi hanno provato a trovare una definizione universale del concetto di etica. Ci hanno provato, eppure i fatti e la storia dimostrano che ciò che noi consideriamo oggi “bene” e “morale” potrebbe non esserlo per qualche popolo lontano, con una cultura diversa dalla nostra. O, addirittura, potrebbe diventare amorale domani per i nostri stessi discendenti.

Ecco, tra questi ragionamenti, mi perdo. L’unica certezza che ho è che sono troppo logico per andare in Paradiso. Forse.

Francesco Zaccagni, 20/12/2017

Nilde Iotti 1979

LE RAGIONI DEL SÌ

Facciamo un esempio. La vostra bella casa, che vi ospita e protegge dignitosamente da oltre 60 anni, necessita di essere ristrutturata per poter essere più efficiente energeticamente e rispondere alle nuove esigenze di un mondo estremamente cambiato. La struttura, ben fatta, è ancora solida, ma vanno applicate alcune migliorie che al momento della prima costruzione non erano né possibili né necessarie. Una cosa è certa, sono più di 30 anni che in casa si dice di doverci mettere mano. Lo dicono tutti, a parte i nonni, per i quali ogni cambiamento, anche sostituire una vecchia poltrona, rappresenta un trauma. Ma vuoi per carenza di soldi, per l’incapacità di mettersi d’accordo, per la continua priorità data all’ordinario, il progetto non è mai partito.

Il referendum lo vedo così. La Costituzione è la nostra casa. Ben fatta, una delle migliori del mondo, soprattutto nei suoi principi fondamentali, che sia bene inteso non saranno assolutamente toccati dalla riforma. Ma il tempo e alcune inefficienze emerse con la semplice applicazione reale ne richiedono alcune modifiche, che già i Costituenti stessi avevano intravisto. Tra queste elencherò per necessaria brevità solo alcune che ritengo le più importanti, senza entrare troppo nei tecnicismi, sebbene l’argomento lo richieda.

Prima fra tutte metto la fine del bicameralismo paritario: la fiducia è data e può essere tolta solo dalla Camera dei Deputati, come avviene in tutte le democrazie parlamentari del mondo. Le stesse leggi non vedranno più estenuanti rimpalli tra Camera e Senato, visto che quest’ultimo avrà funzioni diverse. Ci sarà più snellezza ed efficienza legislativa, a dispetto di iter burocratici che in Italia hanno tempi biblici, costringendo spesso i governi a operare abusando di decreti legge.

Avremo più stabilità, con il governo maggiormente capace di portare a termine il proprio programma, evitando così alibi e scarichi di responsabilità. Tenete presente che l’Italia ha avuto ben 63 governi in 70 anni ! Un paese più stabile è anche più solido economicamente e finanziariamente, quindi più affidabile per chi volesse investire da noi.

Il Senato, così riformato nelle proprie funzioni, passerà da 315 a 95 membri elettivi, compiendo così un primo passo verso un’auspicabile riduzione dei costi della politica. In tal senso verrà anche abolito il CNEL, ente ritenuto oggi da tutte le forze politiche un inutile sperpero di denaro pubblico.

Dulcis in fundo, la modifica del Titolo V della Costituzione, ovvero quello che attribuisce i poteri alle Regioni. Vi sembra normale che qualcosa che va bene nelle Marche o in Toscana, possa essere ritenuto contro la legge in Umbria? Votando SI’, le decisioni che riguardano materie di interesse nazionale torneranno allo Stato, evitando il frastagliamento di leggi regionali e in certi casi provinciali, che spesso rendono la vita impossibile ai cittadini e alle aziende. Temi strategici come quello dell’ambiente e della salute, delle grandi infrastrutture, della tutela e valorizzazione dei beni culturali, non saranno più trattati diversamente da regione a regione, magari a distanza di pochi chilometri.

Purtroppo la personalizzazione del referendum a un voto pro o contro Renzi ha fatto passare in secondo piano l’importanza della riforma stessa e dei suoi possibili vantaggi, coalizzando un fronte del NO estremamente variegato e politicizzato.

Sia chiaro, la perfezione non esiste, ma bisogna mettere sul piatto della bilancia gli effetti che saranno sicuramente positivi rispetto ai punti migliorabili, quali ad esempio la legge elettorale, di cui in questi giorni è già stata approvata una bozza.

Tra i detrattori, ci sono molti di coloro che la riforma hanno contribuito a realizzarla (ad esempio Berlusconi e i suoi), ma che per pura posizione antigovernativa, oggi la respingono.  Altri, invece, sono coloro che nell’arco di decenni hanno tentato più volte di portarla avanti, ma non sono riusciti nemmeno a proporla. Parliamo di politici quali D’Alema, che sono in pista da 40 anni e non riescono ad accettare che qualcuno riesca laddove loro hanno fallito. Si tratta insomma di “fuoco amico”, in questo caso.

«Quando fai qualcosa – recita una massima di Confucio – sappi che avrai contro quelli che volevano fare la stessa cosa, quelli che volevano fare il contrario e la stragrande maggioranza di quelli che non volevano fare niente». Nulla di più calzante oggi per descrivere buona parte dei sostenitori del NO.

È curioso pensare come gli obiettivi di questa riforma siano gli stessi che una giovane Presidente della Camera, Nilde Iotti, si era posta nel lontano 1979. E oggi stiamo ancora qui a parlarne come di una chimera, quando in realtà basterebbe un SI’.

Ai più titubanti e conservatori faccio notare che se cambiare potrà sembrare rischioso, l’immobilismo attuale porta ad una sconfitta certa. Il paese è quanto mai fermo, soffocato da una crisi senza precedenti e da una burocrazia che rende lente e spesso vane tutte le possibili reazioni in uno scenario sempre più veloce e globalizzato.

Non sarà la fine del mondo, ma qualora prevalga il NO, sarà certamente una grandissima occasione persa. Non solo. Il quadro politico è così frammentato e mosso dai populismi (la recente elezione di Trump ne è l’emblema), peraltro con il precedente di un eventuale referendum negativo, che è impossibile immaginare una nuova riforma nell’arco dei prossimi decenni. Sopravvivremo, forse, come fatto finora: con governi deboli e frequenti, sotto scacco di piccoli gruppi, con il rischio, in quel caso sì, di una pericolosa deriva autoritaria.

E la nostra casa, bella ma non più efficiente, rischia prima o poi di crollare al primo terremoto per scarsa manutenzione.

Francesco Zaccagni, Novembre 2016

FIDEL CASTRO, DITTATORE O ILLUMINATO ?

Riflessioni all’indomani della morte di Fidel Castro, avvenuta il 25 novembre 2016

Sono stato a Cuba quasi un mese nel 1995 (prima del Papa) e l’ho girata quasi tutta, facendo molte domande a tante persone di tutte le età.

Posso dire che quella di Fidel Castro, con tutti i limiti e le contraddizioni tipiche di una dittatura, è stata una dittatura illuminata. E’ vero, non c’era libertà di stampa, molti volevano fuggire negli USA, alcuni lo hanno fatto, in certi casi rimpiangendo poi di averlo fatto. Non c’era libertà politica, come in un normale paese democratico.
Ma con certezza posso dire che il livello culturale delle persone (tutte!), l’assistenza medica (nonostante la carenza di medicine anche per colpa dell’embargo), la scuola, insomma il cosidetto welfare erano di ottimo livello.

Non parliamo poi dello sport, ma in quello i Cubani sono aiutati dal fisico.

Ho conosciuto tante persone povere ma tutte assolutamente dignitose. Quella stessa isola, magari con diverse forme di governo più democratiche, non so se avrebbe potuto mantenere simili standard sociali.

Mi viene in mente il Brasile, il Venezuela, il Perù, L’Ecuador e vedo molti bambini che muoiono di fame e in certi casi uccisi per il traffico di organi, vedo molti analfabeti, vedo un livello di sicurezza peggio della Siria oggi. E’ vero, Cuba ha poco più di 10 milioni di abitanti, ma intanto quelle cose le ha garantite.

Non avremo mai la controprova e qualcuno potrebbe dire “bello prendere i granchi con le mani degli altri!”, ma se avessi dovuto rinunciare alla democrazia e vivere sotto una dittatura, molto probabilmente avrei scelto quella di Fidel. E chi vi scrive non è certo un comunista.

bebè italiani

RICCHEZZA E FIDUCIA NEL FUTURO SONO RELATIVE

Gli Italiani sono un popolo che demograficamente è destinato a morire, perché invecchia sempre più.
Solo gli immigrati tendono a prolificare e questo dimostra che non sono tanto gli ammortizzatori sociali (bonus, asili nido, ecc) che spingono a fare figli. E’ soprattutto una questione psicologica e culturale.
Molte giovani coppie italiane non hanno fiducia nel futuro, pur avendo casa, genitori, nonni con la pensione e in certi casi pure un lavoro (che è importante, per carità!).
Al contrario, immigrati che hanno poco o nulla, provenendo da paesi con situazioni di assoluta indigenza, di figli ne fanno, senza paura…e pure tanti.
Prolificate gente. Prolificate!

social e dialogo

SOCIAL: UTILI PER INFORMARE, PESSIMI PER DIALOGARE

Mi sono trovato recentemente ad affrontare una discussione molto pratica su un social tra i più diffusi. Al di là del merito della questione, delle persone coinvolte e dei risultati che ne sono scaturiti, ciò che mi ha profondamente colpito sono le modalità dello svolgimento della stessa.

Visto che la comunicazione rappresenta gran parte della mia professione, social compresi (anche se in questo caso con ovvia minor padronanza rispetto agli strumenti tradizionali), sono riuscito a trarre utili insegnamenti e forti convinzioni da questa vicenda.

I social sono un utilissimo strumento per informare, vista la grande immediatezza per cui si contraddistinguono. Immagini e notizie vengono trasmesse in tempo reale, generando condivisione, commenti e diffusione.

I social sono inoltre uno strumento altrettanto adatto per chi vuol cazzeggiare, divertendosi parlando del nulla. In questo caso vedo personalmente lo strumento come negativo, tempo strappato alla vita reale. Tuttavia, anche se è solo tempo perso, lo strumento te lo permette di fare nel migliore dei modi.

Nel business i social sono ormai divenuti un efficace mezzo per creare relazioni commerciali, peraltro con la possibilità di targettizzare i destinatari dei propri messaggi.

Ciò premesso, veniamo alle negatività di questo strumento, sperimentate personalmente.

Utilizzare i social per discutere e prendere decisioni, anche le più banali, è estremamente controproducente e negativo perché viene alterata, se non addirittura esclusa, la componente fondamentale di qualsiasi negoziazione: il dialogo.

Nei social non ci si guarda negli occhi, non si ascolta il tono di voce, non si capisce se una frase è pronunciata sorridendo o per davvero. Insomma, mancano i fondamenti base della comunicazione.

Il carattere stesso dell’immediatezza, prerogativa dei social, toglie tempo alla riflessione. Nella discussione di gruppo da cui prendo spunto ad un certo punto un interlocutore ha detto: “Non c’è tempo da perdere, bisogna dire SI’ o NO, senza tante chiacchiere. Punto.”

In realtà, per quanto alla fine occorra comunque arrivare a una decisione concreta, la soluzione più giusta sta quasi sempre nel mezzo, come dicevano i latini. Ben lontana da un secco SÌ o NO. L’istantaneità toglie spazio alla mediazione, non vengono considerate le percezioni soggettive, non c’è tempo per riconoscere gli errori (personali e altrui), non possono essere ponderate eventuali vie alternative.

Il social è inoltre un pericoloso amplificatore di aggressività, un po’ come l’automobile. Non si sa perché, ma al volante certe persone solitamente calme diventano tigri inferocite per una semplice mancata precedenza, a volte con degenerazioni anche dai risvolti tragici. Tuttavia gli episodi che avvengono sulla strada restano circoscritti, per fortuna, sui social possono purtroppo assumere il carattere di viralità.

È così che i social possono degenerare diventando strumenti di divulgazione di violenza, odio, razzismo e omofobia, con una portata mediatica senza precedenti.

Facciamone quindi buon uso.

Francesco Zaccagni, 10/06/16

EVOLUZIONE SOCIALE vs SICUREZZA

EVOLUZIONE SOCIALE vs SICUREZZA

L’incapacità dell’intelligence (si fa per dire!) belga di fronte al terrorismo dimostra quanto le società più evolute e virtuose siano deboli e goffe di fronte alla delinquenza.
In paesi dove la prassi è il rispetto assoluto delle regole, in cui è quasi impossibile trovare cicche di sigaretta a terra, per la criminalità è un habitat ideale.
E’ questa purtroppo l’altra faccia triste della medaglia. Il raggiungimento di elevati standard sociali, l’inviolabilità di qualsiasi diritto umano, la tutela assoluta della privacy e il garantismo prima di tutto creano crepe facilmente penetrabili.
Paradossalmente paesi molto più “barbari” dal punto di vista civile, come gli Stati Uniti, la Russia e la stessa Italia hanno sicuramente più familiarità con il crimine. La lotta alle associazioni mafiose di certo sono un’ottima palestra.

Jeremy Meeks

ANDARE IN CARCERE, UNA VERA OPPORTUNITÀ’ PER FARE CARRIERA

Ormai andare in carcere dà più prospettive che frequentare l’Università.

Raffaele Sollecito, giudicato innocente da una delle inchieste più ridicole d’Italia, scrive libri e rilascia interviste. Amanda Knox gira film ed è diventata una soubrette… Quest’altro fa il modello perché è il detenuto più bello del mondo (!!??). Tutte vere celebrità…

Poi magari ci sono anche anonimi innocenti in carcere…e tante persone che si spaccano il culo LAVORANDO ONESTAMENTE tutti i giorni per sbarcare il lunario.

Ora però un film lo faccio pure io, con questo titolo: IL MONDO ALLA ROVESCIA…

alessio viviani

Negli scacchi non esistono handicap!

Il gioco degli scacchi è uno sport che Kasparov ha definito “il più violento del mondo”, sia perché rappresenta una lotta tra eserciti in cui occorre sopraffare l’altro, sia perché, trattandosi di uno sport individuale scevro da qualsiasi alibi, la sconfitta pesa fortemente per la sua inappellabilità. Chi perde non può prendersela con nessuno, se non con sé stesso.

Eppure, al tempo stesso, gli scacchi possono rappresentare un’ottima opportunità di divertimento, di socializzazione e di integrazione per tutti: bambini, adulti e anziani, maschi e femmine. Soprattutto, e la storia che sto per raccontare lo dimostra appieno, nel magico mondo delle 64 caselle l’handicap fisico si annulla, esiste solo una battaglia fra due menti.

Si è concluso recentemente il XXVI Festival di Porto San Giorgio, un importante torneo di scacchi al quale hanno partecipato numerosi scacchisti di assoluto livello, tra cui anche alcuni maestri professionisti di livello internazionale.

Ebbene, a vincere è stato il diciottenne Alessio Viviani, un ragazzo marchigiano che, come vedete dalla foto, è molto più sfortunato di noi, in quanto affetto da amiotrofia muscolare spinale.

Alessio gioca a scacchi da quando aveva cinque anni, su consiglio del fisioterapista al fine di farlo stare un po’ seduto muovendo i pezzi.

La disabilità, ovvio, non rende la vita facile ad Alessio: si sposta su una carrozzina elettrica, che manovra con piccoli movimenti delle mani, e respira con l’aiuto di un ventilatore polmonare.

Grazie però alla sua forza di volontà, al supporto dei genitori, e alla flessibilità dei regolamenti scacchistici che permettono ai disabili di utilizzare attrezzature speciali, ha buttato il cuore oltre l’ostacolo raggiungendo una forza di gioco di eccellenza.

Siccome non può stare seduto normalmente alla scacchiera, sta sdraiato sulla carrozzina elettrica e osserva la posizione su una lavagnetta verticale in cui vengono replicate le mosse. Quando ha scelto la mossa da giocare, la comunica alla madre, che la esegue sulla scacchiera e schiaccia l’orologio.

Questa eccezionale vittoria dimostra due cose: la prima che in ogni circostanza della vita, anche la più sventurata, non bisogna mai compatirsi, ma sempre lottare.

La seconda che solo negli scacchi, uno sport in cui conta esclusivamente la bravura, si combatte ad armi pari, senza distinzioni di razza, sesso, età e handicap vari.

Senza urtare la sensibilità di nessuno, vorrei sottolineare che questa vittoria ha un sapore molto diverso da quelle conseguite da atleti in sport paraolimpici, in cui la competizione si svolge esclusivamente tra portatori di handicap. Alessio ha vinto battendosi con atleti normodotati.

Dovremmo prendere tutti esempio da lui.

Gli scacchi in strada

Un amico scacchista ternano si imbatte a Parigi in un gruppo di persone che giocano in strada. Su Facebook lancia lo scherzoso quesito: mi fermo abbandonando la famiglia, o no?

Non ho avuto dubbi nel rispondergli subito di sì, perché gli scacchi in strada sono la cosa più bella del mondo. Non conosci l’avversario, ma ci giochi come se lo conoscessi da sempre. E’ una delle tante forme di linguaggio internazionale.

Questa domanda mi ha fatto tornare in mente un episodio accadutomi nel 2004, durante un mio viaggio in Uzbekistan.

A Samarcanda mi imbatto in Jamol Kosimov, un ragazzo che vende scacchiere e oggetti in legno, con cui ancora oggi ho sporadici contatti.

Passando di fronte la sua bancarella, faccio per scherzo la prima mossa e lui risponde immediatamente. Viene fuori una partita vera, all’ultimo sangue. Ricordo bene che fu difficile vincere soprattutto perché gli scacchi avevano una forma strana e faticavo a riconoscerli.

Mentre i miei compagni di viaggio sono tutti risaliti sul pullman, approdo in un finale vincente. Ho la partita in pugno contro un Uzbeko, con 4-5 suoi amici intorno a guardare… Momenti frenetici, soprattutto perché il mio pullman è da tempo che ha cominciato a suonare per sollecitarmi… Non ce la faccio a lasciare una partita vinta. Proseguo e vinco.

Quando sono tornato sul pullman, non è stato difficile subire in silenzio gli insulti di tutti… Perché avevo vinto contro un Uzbeko a Samarcanda, in un paese ex sovietico, in cui gli scacchi sono cultura e tradizione. E io mi sentivo di aver ben rappresentato l’Italia.

Forse è solo per questo che Jamol, quel giorno, volle scambiarsi le email e ancora oggi mi scrive.

Per chi veramente li ama, gli scacchi sono anche questo. Soprattutto questo.

Francesco Zaccagni, 7 aprile 2015

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