Un apparente aspetto burbero che nascondeva una grande simpatia. Questa potrebbe essere la descrizione più breve e calzante di un grande Eugubino: il dott. Ermete Bedini. Ma era noto semplicemente come ‘l Dottore, e fra i tanti si capiva che era lui, il Dottore. Oppure, altro modo per indicarlo era il soprannome di famiglia, Pio Nono, ereditato dallo zio paterno, che era stato attendente personale del Pontefice. Ma a dire il vero, per lui bastava il nome, come per i giocatori brasiliani, quel nome classicheggiante e perciò raro. Bastava dire Ermete… Era un pezzo di storia d’Italia, se si pensa che era uno dei pochi reduci dal fronte russo. Un pezzo di storia di Gubbio, riferendosi non solo al ceraiolo, ma al cittadino innamorato e sempre attivo per la propria città, tanto che amava ripetere: “Io quando so a Scritto già me pare de esse a l’estero!”
Ermete era un uomo di altri tempi, schietto e trasparente, uno di quelli per cui la parola aveva un valore reale, e forse anche per questo era sempre un piacere sentirlo parlare. I tre anni di campagna di Russia gli hanno cambiato l’esistenza, condizionandogliela ma anche facendogli capire i veri valori della vita. Celebre e significativo l’aneddoto che spesso ricordava: nel sonno della prigionia i topi sovietici avevano il morso tenero, tanto che la mattina ci si poteva svegliare senza i bottoni della divisa. Paura dei topi che, come altre tremende esperienze dei lager russi, è rimasta per tutta la vita, nonostante ciò, vissuta fino in fondo con passione e soddisfazione. Ma la guerra, oltre alla terribile esperienza della prigionia, lo tocca anche negli affetti intimi: appena tornato dalla Russia scopre che suo padre era stato fucilato insieme ad altri 39 Eugubini.

Tutto ciò basterebbe per buttarsi giù e vedere tutto nero. Ma Ermete non era così, aveva un carattere di ferro ed una volontà incrollabile. E così riprende una vita normale, fatta di lavoro, famiglia ed amici. Una delle sue maggiori passioni era la caccia, seppur in contrasto con il suo mestiere di veterinario: era così preciso nel tiro che, giocando con il suo nome, nell’ambiente venatorio era conosciuto come “Armato”. A questo proposito, nel giugno del 1939 partecipò ad una gara di tiro con il fucile in un poligono presso la Madonna del Sasso, competizione annuale indetta dal regime fascista. Lui non aveva nemmeno 18 anni, perciò per concorrere dovette ottenere una deroga e presentare la firma del padre. Arrivò primo fra 280 concorrenti, vincendo un premio di 30 lire: un cecchino infallibile!

Altri suoi passatempi, sebbene il nome non sia proprio azzeccato, perché Ermete era sempre molto competitivo, erano il calcio e le bocce. Un vero spettacolo goliardico vederlo giocare a bocce insieme a don Pietro Baldelli, i Nardi, Valentino Manuali, Vincenzo Blasi. Le partite con don Pietro erano sempre combattute, fra l’altro scevre, (previa morso alla lingua), da qualsiasi imprecazione. Anche se a volte capitava che Ermete si allontanasse per farlo… o approfittasse della momentanea assenza del prelato.
Ma al lavoro di veterinario sono legate le sue migliori battute. Come quella mucca che da tempo si rifiutava di mangiare, nonostante al bovino venissero offerti di volta in volta foraggi migliori. Dopo averle provate tutte, disse allo speranzoso allevatore: “Portela su la Congregazione, si ‘n magna manco di lì ‘n c’è niente da fa’!”. Oppure quel contadino che lo avvisò del malore del proprio maiale alle tre di notte, nonostante fosse dal pomeriggio che il povero suino versasse in pessime condizioni. Dopo un serrato dibattito, gli disse: “Ma te ce dormi coi maiali?”. Oppure, estate 1966, quella dei mondiali in Inghilterra, Ermete andava a vedere le partite presso il circolo di Corso Garibaldi. Mentre giocava l’Italia, un contadino arrivò trafelato, la sua mucca stava partorendo, e il dottore dovette abbandonare tutto ed accorrere in soccorso del bovino. Tre giorni dopo l’Italia giocava ancora, Ermete, in epoca dove non c’erano ancora cellulari e la relativa reperibilità, andò a vedere la partita, ma questa volta parcheggiò l’auto piuttosto lontano dal circolo, per sviare eventuali interventi d’urgenza. Ma l’allevatore riuscì ugualmente a rintracciarlo e così dovette ancora rinunciare alla visione. Così, per evitare che succedesse una terza volta, il Dottore si recò precauzionalmente alla vigilia della partita seguente presso il contadino in questione, che lo accolse felice: “Dottore, sta partorendo adesso!”. Lui, quasi a scongiurare un altro intervento scocciante, gli rispose: “Tience nna mano, lascela per domani sera!” (Per la cronaca, la partita seguente riuscì finalmente a vederla per intero, era la celebre Italia – Corea Del Nord, probabilmente avrebbe fatto meglio a far nascere un altro vitellino…). Ma forse, la battuta più celebre risale a quel giorno in cui uno suonò a casa ad ora di pranzo per chiedere un consulto a Ermete, il quale, ancora sporco di sugo e con la bavaiola addosso, si affacciò alla finestra. Di fronte a tale scena, l’ansioso allevatore chiese al dottore se stesse mangiando. La risposta, molto secca e ironica, è ancora oggi un classico eugubino quando qualcuno fa una domanda ovvia: “NO, ce tiramo le pugnette!”
Oltre a questo, chi non conosce l’episodio delle mele di Bedini? Ormai diventato l’apologia del non sapersi godere il momento, una specie di carpe diem eugubino. Con autoironia, Ermete amava raccontarlo: mandava il figlio Furio in soffitta a prendere le mele per la giornata, raccomandandogli di prendere quelle un po’ passate, per evitare che si marcissero del tutto con un’ulteriore attesa. Finché, giustamente, un giorno Furio obiettò: “Babo, ma le mele bone quando le magnamo?”.

Tutt’altro che autoironica, ma altamente caratteristica del personaggio, la similitudine con cui Ermete amava definirsi: “Sono il Ronaldo de la caccia e del cero!”. Esatto, perché anche, anzi soprattutto, nell’ambito della Festa, il suo spirito, la sua capacità, il suo carisma, sono emersi. Per tanti anni barelone sul corso, instancabile organizzatore di mute e promotore di iniziative, era amatissimo dai Santantoniari, che lo ebbero come capodieci di brocca nel 1964. Quando, qualche decennio dopo quel 15 maggio, lesse su www.ceri.it il resoconto di quell’anno, che ricordava di una caduta di sant’Antonio in via dei Consoli, lui stampò la pagina e corresse a penna la parola “caduta” con la meno grave “penduta”: certo, nel sito e nella memoria, la storia non cambia, però quel foglio appeso e vergato a mano gli dava quasi un sollievo … Passione pura. Passione che ha trasmesso ai figli Furio ed Umberto, che ebbe per qualche anno insieme nelle girate.

Ma l’episodio che trasmette al meglio lo spirito ceraiolo di Ermete, non è legato al suo cero, bensì a quello di san Giorgio: era il 1957, ed una rara istantanea lo ritrae ceppo davanti esterno nelle girate della sera sotto il cero del Santo Guerriero. Infatti, dopo essere uscito da capodieci con il suo sant’Antonio, vide il ceppo di san Giorgio cadere e la punta davanti inginocchiarsi sotto il peso: non ci pensò un secondo e, nonostante la stanchezza del suo pezzo appena terminato, si buttò sotto e salvo il cero “avversario”. Quando la foto venne pubblicata nei giorni seguenti, gli amici gli chiesero se si fosse sbagliato cero… Me lo immagino rispondere: “E mica so’ daltonico!”… Semplicemente, aveva messo in pratica il suo modo di essere, nella vita, come nel cero: se vedeva uno in difficoltà, lo aiutava, sia che fosse un soldato al fronte, un allevatore con un animale ammalato, o un ceraiolo. Senza guardare uniformi, ceti o colori.

Quando poi lasciò il cero, dopo lunga carriera, non mancava mai di camminare per il percorso, per passare in rassegna le varie mute e dare ai suoi ceraioli gli ultimi consigli o forti incoraggiamenti. Negli ultimi anni, quando avanzava un po’ più lentamente, durante i minuti salienti della corsa, le mute intere dei santantoniari, nonostante la tensione, lo circondavano per salutarlo ed omaggiarlo. Alcune sue massime sono diventati dei veri e propri comandamenti:  primo non cadere; il Cero va preso con umiltà… Memorabile la volta in cui gli chiesero di scrivere le motivazioni per il voto che aveva dato ad un capodieci e lui scrisse: “Ènno cazzi miei!”

Qualche anno fa, volle provare, durante la mostra, un pezzo a punta davanti. Gli era stato affidato un ceppo molto più alto, per far sì che il dottore (con le sue tante primavere) potesse correre senza grandi sforzi. Ma lui, dopo qualche passo, si accorse del bonario sabotaggio e urlò ripetutamente: “Via ‘l ceppo, via ‘l ceppo!”. Ermete voleva sentire il peso, voleva provare lo sforzo che gli era noto ed amato, voleva soffrire quel dolce dolore. Qualche anno dopo, nel letto d’ospedale, attaccato a tubi e cateteri, Ermete volle di nuovo provare quella passione, non voleva aiuti, intendeva prendersi tutto il peso da solo. Anche in quel caso, per ottenere che i medici lo lasciassero tornare a casa a finire in serenità i suoi giorni, disse: “Via ‘l ceppo…”

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